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  • Veneto tra tradizione e leggenda: vino bianco l'1 agosto, festa dei "omeni" il due agosto

    Il mese di agosto inizia all'insegna di due tradizioni venete, ovvero quella di bere due dita di vino bianco al mattino, appena svegli, quindi a digiuno, il primo giorno di agosto, e quella che festeggia gli uomini, non dal punto di vista sociale, ma naturale e, in particolare, genitale. Quella del vino bianco alla mattina è una tradizione diffusa soprattutto a Treviso e provincia, mentre il giorno del 2 agosto nascerebbe dall'epoca napoleonica a Venezia, ma è diffusa nel Nordest. In particolare in provincia di Udine, a Monteprato di Nimis, la leggenda narra che in un'osteria degli uomini si stessero lamentando delle poche nascite in paese e che una donna prese un ceppo di legno e lo scolpì per farlo assomigliare a un grosso fallo che venne esposto in piazza e anche nel locale, con lo scopo di dire agli uomini che, invece di darsi da fare con lamentele alcoliche, avrebbero dovuto darsi da fare a letto accusandoli quindi velatamente di essere impotenti. Anni dopo sarebbero nati solo maschi in paese per 23 anni di fila. Questa festa ha suscitato recenti polemiche per delle donne bendate e inginocchiate che mangiavano una banana da dietro un pannello dove dall'altra parte c'erano uomini in piedi, mimando quindi la fellatio. Altri riti di questa festa sono lo striptease maschile con le donne che danno i voti e, a giudicare dai video, comunque le donne sembrano divertirsi a queste feste. La data del 2 agosto deriverebbe dal francese deux a gauche, che era un ordine impartito ai soldati napoleonici che dovevano essere allineati in tutto, anche nei gioielli di famiglia, spostando quindi, nella loro calzamaglia, il pacco a sinistra. Dato che Venezia fu occupata militarmente da Napoleone, la cittadinanza locale sentiva sempre dire questa frase, che storpiata sarebbe diventata do a gost, due agosto, data in cui si celebrano i testicoli, che del resto sono quelli che, assieme all'utero, danno la vita e nell'antropologia umana non è raro trovare riti che celebrano la fertilità attraverso il culto di singole parti del corpo. La leggenda del primo agosto invece è legata a una regina che si ammalò in provincia di Treviso e, quando ormai era in punto di morte dopo che nessun dottore era riuscito a fare qualcosa per migliorare le sue condizioni, una suora, chissà perché, andò in cantina e spillò del vino bianco fermentato e lo diede da bere alla regina, che nel giro di poco tempo si riprese completamente. Da lì il detto per cui bere vino bianco il primo agosto protegga dai morsi di vipera e dalle febbri estive. Se non lo sapevate o vi siete dimenticati stamattina, non preoccupatevi, siete ancora in tempo a farlo domani.

  • Tav a Vicenza, Tar accoglie in minima parte ricorso Italia Nostra: progetto da rifare per tratta Altavilla. Respinta la difesa dei boschi Lanerossi e Ca' Alte

    Solo una piccola parte del ricorso al Tar del Lazio presentato a dicembre dall'associazione Italia Nostra, sezione di Vicenza, è stata accolta, secondo quanto riporta la sentenza emessa in camera di consiglio il 17 luglio dai magistrati Giuseppe Sapone, Presidente, Luca Biffaro, Referendario, Marco Savi, Referendario, Estensore, e pubblicata oggi 24 luglio nella sezione Decisioni e pareri del sito del Tribunale stesso, che, in merito al ricorso presentato contro il Commissario Straordinario per Av/Ac Brescia-Verona-Padova in persona dell'Ing. Vincenzo Macello, non costituito in giudizio;Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, Cipess Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con l'avvocato Alessandro Pesavento a rappresentare Italia Nostra, in parte lo dichiara irricevibile, in parte inammissibile, in parte lo respinge e in parte lo accetta . In particolare è stata accolta la censura al progetto sulla tratta Altavilla-Vicenza, nella zona Val di Molino relativamente alla costruzione di un bacino di laminazione sul torrente Onte con lo scopo di mitigare l'impatto ambientale. Il progetto definitivo andrà riscritto per includere questo bacino di laminazione, e quindi saranno ritardati i lavori sul tratto Altavilla-Vicenza. Il ricorso di Italia Nostra sollevava molti altri dubbi sul progetto per quanto riguarda le zone di Campo Marzo, Monte Berico, cavalcavia di via Maganza, possibile inquinamento da Pfas e la presenza dei boschi di Ca' Alte e Bosco Lanerossi. Tutte queste censure sono state respinte. Sulla questione Pfas, scrivono i magistrati, " La definizione delle misure di mitigazione alla fase di progettazione esecutiva non evidenzia di per sé alcuno specifico vizio della procedura, potendo le predette misure costituire l’oggetto di prescrizione, e tenuto conto del fatto che il monitoraggio eseguito ante operam è idoneo in ogni caso a impedire ogni possibile evento avverso derivante dall’eventuale riscontro circa la presenza di contaminanti. La censura è, dunque, infondata. " La censura relativa ai boschi è considerata inammissibile, in quanto "f ormulata soltanto con memoria non notificata". A salvare un pezzetto del bosco Lanerossi, dal punto di vista legale, rimane quindi solo l'albero monumentale, il Liquidambar, oltre alla dura lotta promessa dal centro sociale Bocciodromo, che intanto, in attesa delle ruspe, continua le sue attività di avvicinamento della cittadinanza ai boschi. Sabato 27 luglio al bosco Lanerossi, per esempio, è previsto uno swap party, scambio di vestiti usati, e un'anguriara.

  • Biden, l'annuncio su X: si ritira, lancia Kamala Harris, ma non si dimette

    Joe Biden ha appena pubblicato su X (ex Twitter) l'annuncio tanto atteso, ma che lui non avrebbe mai voluto dare. Rinuncia alla candidatura del partito Democratico per sfidare Donald Trump a novembre. Biden lancia la sua attuale vice, Kamala Harris, che sarebbe la prima donna e anche la prima donna di colore presidente, ma che è indietro nei sondaggi, mentre avrebbe, sempre secondo i sondaggi, stravinto, l'ex first lady Michelle Obama. Joe Biden, 81 anni, ha collezionato negli ultimi mesi una serie di gaffe, alcune palesi, altre chiacchierate, che ne hanno messo in luce la scarsa lucidità mentale: vuoti di memoria, lapsus, scambi di persona. Il partito lo ha scaricato, i finanziatori pure, deriso persino da Crozza, l'uomo più potente del mondo nel voler resistere come papa Wojtyla fino alla fine si è esposto al grottesco. Per guidare il Paese più potente del mondo serve un'energia che lui, e non è colpa sua, sembra non avere più e del resto, in un mondo normale, non ha neanche senso chiedergliela. Energia che però, a suon di bufale secondo molti e a suon di offese, oggettivamente, dimostra di avere il suo comunque non giovane sfidante, Donald Trump, 78 anni. Se vincesse lui, avremmo comunque, tra un paio d'anni, un ottantenne alla casa Bianca. In ogni caso quindi avrebbe vinto la gerontocrazia. Biden resta presidente fino alla fine del mandato, ma a sfidare Trump sarà Harris, sperando che il partito sia unito su di lei, sessantenne, quindi non giovanissima, ma lucida, nonostante alcune critiche. Dall'altra parte abbiamo un Trump scatenato, sopravvissuto a un tentato omicidio, pronto a trasformare la più grande democrazia del mondo in una democratura alla Putin od Orban, ma anche a mollare la Nato e l'Europa. Kamala Harris ha circa quattro mesi per convincere gli americani del buon lavoro fatto in questi quattro anni dall'amministrazione Biden, spiegando concretamente perché Trump non sarebbe la scelta migliore per il Paese. Sperando che, tra quattro anni, tornino alla ribalta i quarantenni, almeno nel Paese delle grandi opportunità.

  • Il soggetto irritabile. La rabbia come percorso tematico nei romanzi di Paolo Volponi

    Paolo Volponi è stato uno scrittore, dirigente d'azienda e deputato italiano, nato a Urbino nel 1924 e morto trent'anni fa, il 23 agosto 1994. Grande amico e collaboratore di Adriano Olivetti, fu molto deluso dalla sua esperienza alla FIAT negli anni '70. Avvicinatosi giovane al Partito Repubblicano, fu eletto nel '92 tra le fila di Rifondazione Comunista. Da sempre attento ai cambiamenti sociali e politici, predisse la breve durata del primo governo Berlusconi, affossato da Bossi dopo qualche mese dalla sua prima elezione nella primavera '94. La sua produzione letteraria è stata etichettata come letteratura di fabbrica. La tensione tra umanesimo e scienza è sempre fortissima nelle sue opere, romanzi, racconti, poesie. Grande appassionato di pittura, la sua è anche un grande esempio di scrittura visiva e negli ultimi anni, prima della prematura scomparsa, si intuisce l'affermarsi di una sensibilità per i temi ambientali. La critica ha spesso sottolineato la presenza, nei romanzi di Volponi, dei folli e dei diversi, che hanno una funzione precisa: Al fondo della poetica di Volponi si colloca una percezione irriducibilmente lirica, ovvero altra, della realtà che troverà la propria figurazione esemplare nell’immagine del folle, nella sua ottica deformante e visionaria. Il nevrotico diviene[…] un ribelle al quale la stessa nevrosi dà una capacità di interpretazione della realtà più acuta e rivelatrice. L’oltranza della follia, diviene strumento di conoscenza: diviene la specola, la ferita-feritoia dalla quale inquadrare la violenza della normalità istituita. (Guido Santato, Il linguaggio di Volponi tra poesia e romanzo, in «Paragone-Letteratura», n.442, 1986, pag. 12-13) La follia in Volponi non è fine a se stessa e si manifesta quasi sempre come una reazione virulenta, attraverso i vari stati di quella che in psicanalisi si definisce “isteria”, che non è solo malattia o sfogo, è la conseguenza di una razionale ricerca di un rapporto tra l’individuo e la società, ma l’io sociale è sempre un io ferito. La critica ha infatti spesso evidenziato il risvolto polemico nei confronti della società nelle opere di Volponi, individuando contemporaneamente il carattere visionario, allucinatorio del suo modo di guardare il mondo, supportato non di rado da personaggi nevrotici o folli: il linguaggio “lirico” ha allora il doppio compito […] di esprimere l’ottica deviante di costoro, vittime della società, e di porre un’esigenza di alterità “utopistica” rispetto al mondo stesso di oggi, nelle sue forme neocapitalistiche. (Mengaldo Storia della lingua italiana. Il novecento, Bologna , il Mulino, 1994, pag. 180 e 356). Il lanciatore di giavellotto, del 1981, è forse il romanzo dove la follia è più “individuale” e meno “sociale”, derivata da un rapporto morboso con la madre bellissima e fedifraga, dalla difficoltà a rapportarsi con le donne, che porta il giovane protagonista a coltivare una violenza repressa, che l’esercizio fisico non basta a sedare, fino al doppio gesto estremo finale. Il suicidio però non è sempre un segno di sconfitta, ma spesso, come in età romantica, è concepito come un’offesa e un affronto al mondo. Nelle opere di Volponi l’annullamento dell’io è una costante (Saluggia, Crocioni, Aspri, Possanza e Saraccini sono dei perdenti, sconfitti e annichiliti dalla società e dalle persone) anche se solo due volte nei romanzi e uno nei racconti il protagonista ricorre al suicidio. Marco Vianello nel suo saggio apparso nel 2003 sulla rivista «Studi Novecenteschi» avente per titolo Volponi e il tema del suicidio confronta i protagonisti de La macchina mondiale, Il lanciatore di giavellotto e Talete, sostenendo che non si può parlare di follia, si tratta invece di una lotta interna alla ragione e di una reazione alla folle “ragione strumentale” della società neocapitalistica: compresenti sono i due elementi che determinano la ‘stranezza’ dei personaggi volponiani e, alla fine, le cause ultime del suicidio, ‘soggettivo’ e ‘oggettivo': l’irregolarità soggettiva dei personaggi da una parte, dall’altra la società che esclude e respinge l’uomo. È ancora, anche se il problema è ora posto in altri termini, il tentativo dei romantici di comunicare con l’autrui, solo che Volponi sembra mettere l’accento accusatorio soprattutto su quest’ultimo, nel mondo borghese e industrializzato. (pag. 73-74) Una follia non più soggettiva è invece rappresentata in due romanzi “apocalittici”: Il pianeta irritabile, del 1978, e Le mosche del capitale, del 1989. Il primo è proiettato in un futuro lontano che però non esita ad alludere a fenomeni degli anni ’70 e si configura come un ritorno ad un passato primitivo e primordiale, in cui la violenza fa parte della logica della sopravvivenza. In questa grande allegoria ad arrabbiarsi è il pianeta stesso con la sua natura e i suoi animali, che si sbarazzano dell’ingombrante e nociva presenza umana. Le mosche del capitale invece è un romanzo che ebbe una lunga gestazione, proprio perché Volponi cercò di oggettivizzarlo il più possibile, essendo stato pensato e scritto in seguito a una forte rabbia e delusione. È praticamente una lunghissima invettiva contro l’industria e il capitalismo italiani, la follia è collettivizzata e l’individuo è ormai perso nella massa, che è una massa postmoderna; la rabbia si trasfigura in immagini apocalittiche e grottesche che riflettono profonda amarezza e critica sociale. Restano fuori Il sipario ducale, del 1975, e due romanzi pubblicati molti anni dopo la loro stesura, uno addirittura postumo, cioè La strada per Roma e La zattera di sale. In questa sede si è preferito tralasciarli non perché non siano legati al tema della follia, ma perché meriterebbero un discorso a parte e diversificato rispetto a quello che vuole essere un percorso tematico sulla rabbia come violenza o come indignazione e protesta. Si è fin qui però parlato molto di follia, non perché si intenda svolgere un’approfondita analisi psicopatologica dei personaggi volponiani (a questo proposito si può infatti rimandare al saggio di Valerio Cuccaroni La follia nella narrativa italiana (1960-1980): i romanzi di Paolo Volponi fra scrittura della nevrosi e sperimentazione), ma perché effettivamente il pensiero comune tende spesso a classificare la violenza: se essa non ha origine ideologica allora è follia. La verità è che non è così semplice distinguere tra i due casi, e i romanzi di Volponi dimostrano esemplarmente come rabbia, furore, collera, invidia, violenza, disperazione, dolore, follia, ideologia, disagio fisico, repressione sessuale ed esclusione sociale tendano spesso a fondersi e confondersi. In particolare il romanzo d’esordio, Memoriale, del 1962, e il romanzo per molti aspetti centrale e cruciale della produzione volponiana, cioè Corporale, del 1974, possono fornirci alcuni esempi importanti. Il protagonista di Memoriale, Albino Saluggia, è un operaio che decide di scrivere una sorta di resoconto della sua esperienza, nella convinzione di essere stato ingiustamente perseguitato ed espulso dalla fabbrica e nella speranza di usare la scrittura della verità come un’arma e un’accusa. Il lettore ha quindi di fronte direttamente la voce del protagonista, senza mediazioni, in modo da avere forte e chiara la sensazione di J’accuse nei confronti della fabbrica. Il senso di ingiustizia e la voglia di riscatto umano e sociale sono dunque alla base della rabbia del protagonista. Ci sono però alcuni indizi che portano il lettore a sospettare della sua sanità mentale. Innanzitutto l’esperienza dello sradicamento e della prematura recisione del cordone ombelicale di Saluggia rispetto alla sua terra d’origine cioè Avignone, e poi al suo caro paesaggio di Candia, durante la guerra. La morte prematura del padre, il difficile rapporto con la madre, la diagnosi della tubercolosi, l’esperienza quasi forzata in sanatorio e la difficoltà per un uomo abituato alla vita da contadino di adattarsi alla vita moderna della città industriale sono tutti elementi che potrebbero aver contribuito a minare la sua psiche: diventavo sempre più irascibile, di umore cattivo e così aspro tanto che nemmeno i miei mali lo condizionavano più. […] Prendevo spesso a calci la cassetta dei pezzi rovesciandola e la cascata rumorosa del metallo era come un avvio, un incentivo a distruggere, a fare ancora cose più sconvenienti; così rompevo tutto quello che potevo, dalla catena dei gabinetti alle maniglie, ai bicchieri degli spogliatoi. Rispondevo male ai miei compagni e se appena lo avessi potuto gli avrei picchiati.(Romanzi e prose, vol. I, pag.130-131) In questo passaggio Albino sostiene che “i suoi mali”, cioè la tosse e i dolori al petto che secondo i medici sono sintomi della tubercolosi, non sono la causa della voglia di distruggere tutto. Qualcos’altro, forse a livello inconscio, agisce dunque sulla sua mente; in certi casi è una sorta di moralismo, unito a una non tanto velata misoginia, come nel caso del pestone rifilato a una donna che ha una relazione con il suo amico Gualatrone, «sui piedi nudi nei sandalini»pag. 130). Il fatto che si sottolinei la nudità dei piedi (in altre parti Saluggia sostiene di essere infastidito dai vestiti estivi delle donne anche in settembre e dai grembiuli slacciati delle operaie) indica un certo disagio nei confronti della sessualità, causato forse da un lato dall’asfissiante presenza di una madre troppo apprensiva e dall’altro dalla rigida educazione cattolica. Quest’ultima del resto, soprattutto dentro una fabbrica, non fa che aumentare lo scollamento del protagonista rispetto all’avanzare dei tempi. Il timore di perdere il lavoro che assale Saluggia quando i medici lo dichiarano tubercoloso non impedisce alla sua rabbia di concretizzarsi e di manifestarsi sotto forma di aggressione ad un compagno di reparto: Finché un giorno, poco dopo arrivati in quel reparto del montaggio, allungò le sue mani sporche verso di me, come se volesse pizzicarmi o accarezzarmi, bofonchiando qualcosa tra la saliva. Mi vinse soprattutto la repugnanza della sua bocca e lo colpii con un pugno ancora pieno dei pezzi da montare.(pag. 144-145) La sospensione dal lavoro è un’occasione per riposarsi e riflettere, ma non sembra che ciò basti a placare Saluggia. Le poesie che egli scrive in sanatorio mostrano come il ritmo di lavoro forsennato imposto dal cottimo influisca anche sui suoi pensieri, in cui le parole si susseguono con frequenza ossessiva concatenandosi attraverso le rime. Un episodio di violenza primordiale insita nella natura acuisce inoltre, come avviene nei romanzi e nelle novelle di Tozzi, il suo senso di disagio e smarrimento: A un tratto, vidi un guizzo rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla sua superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero appena le scosse dell’acqua. Per un altro attimo il luccio rimase fermo, con il suo occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica. La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo pallido e lontano, nel quale non si poteva leggere né scrivere niente, mi dichiararono più solo e spaventato. (Pag. 188) Saluggia patisce la lontananza dal mondo contadino e mostra di non sapersi adattare ai mutamenti storici e sociali. Verso la fine del romanzo la sua situazione di operaio, che è già di per sé una situazione da subalterno rispetto all’organigramma sociale, viene ulteriormente degradata dal nuovo incarico di piantone all’esterno della fabbrica: Così spesso avrei voluto urlare contro gli operai che deridevano la grande fortuna di essere dentro, uniti, con un lavoro. Un giorno ne sentii tre che camminavano ancora più adagio del solito nella pausa rubata tra una porta e l’altra; parlavano di scioperare. Io ero in cima al mio paletto, nel sole, a sedere come una sentinella indiana. […] Il risentimento che provavo e quella fortezza della fabbrica mi diedero l’idea di un assalto. Una sortita avrebbe dovuto venire dalla fabbrica ed io avrei dovuto respingerla dal mio posto con una mitragliatrice. […] Io impugnavo la mitragliatrice. Eccone due alle porte. Facevo fuoco. Le mie labbra misuravano la mitraglia. […] Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i modi. Lo spiazzo davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava i morti man mano che cadevano sotto la mia mitraglia. Uccidevo tutti quelli che tentavano di uscire e la mia ansia era implacabile come quella del sole che divorava tutti i cadaveri.(pag. 225-226) Incapace di individuare la vera origine del suo disagio e di porvi rimedio, ed escluso (anche per colpa sua) dalla lotta sindacale e di classe, l’operaio Albino Saluggia compie la sua vendetta e sfoga la sua rabbia solo in un delirio visionario che mescola immagini bibliche da giorno del giudizio a ricordi personali del trauma della guerra. In questo romanzo la rabbia non riesce a trasformarsi in impegno sociale e sfiora la follia, ma è chiaro comunque il suo stretto rapporto con le condizioni del lavoro in fabbrica. In Corporale l’ideologia marxista e comunista viene invece esplicitamente chiamata in causa, anche quando se ne mostra la sua crisi, che si riflette sul corpo e sulla mente del protagonista, l’intellettuale Gerolamo Aspri, che assumerà poi l’identità del rivoluzionario messicano Joachìm Murieta. Volponi stesso parla così a proposito del suo romanzo: È cresciuta anzitutto una prima parte (scritta in prima persona) nella quale sono esposte le ragioni di questa conflittualità: le insufficienze ideologiche e culturali del protagonista, i dolori di una formazione incerta, il suo fallimento. […] nella seconda parte, muovendo da questo stato di conflittualità egli cerca dapprima di realizzare un progetto criminale: vuole diventare ricco e al tempo stesso sfidare la società, attaccandola con operazioni volgari di brigantaggio e di prostituzione, sostenuto in questo da certi supporti «ideologici» di un suo amico tedesco, Overath. Ma alla fine non ce la fa e crolla. (Commenti e apparati pag. 1140) La crisi del Pci e l’ossessione per la possibilità che scoppi la bomba atomica hanno conseguenze negative sulla psiche di Aspri, che reagisce isolandosi dal mondo e cercando nel suo corpo le risposte necessarie, assumendo allo stesso tempo un atteggiamento inspiegabilmente aggressivo e violento: I miei compagni non mi aiutano più come non mi soddisfano più, anch’essi vanno nel vago, alcuni con una testardaggine che dà all’evanescenza nella quale ormai sono la piega di un ghigno: tutto è più accanito ed è più frettoloso e approssimativo; l’ideologia è offuscata dal tradimento […] la comodità corrode le idee dopo averle lustrate fino in fondo e l’uomo si volta per non vedere gli acidi e le slabbrature. […] Questa volontà di distruggere la società è l’essenza che la tiene e la sorregge. […] La mia rabbia cercava di distinguere e forse perché questo era impossibile si acciaccava dentro di me. […] Afferrai Overath per il collo, dimenandolo e cercando si sbattergli la testa contro il muro. Venne giù mezza tenda e potei mettere le mani sul bastone. Gli vibrai un colpo che non cadde sulla testa giacché era sparito dietro l’altra metà della tenda […] -Mi tocca vaneggiare,- dissi quasi piangendo,- per colpa di questo traditore. […] Diedi un calcio contro un comodino nel rimpianto della brama famigliare e scappai, soffocato dalle lacrime e dalla polvere. (Pag. 419, 441, 557 e 559). In Corporale un giudizio negativo è riservato non alla vita in generale, come in molti romanzi cosiddetti “dell’odio”, sia nell’Ottocento che nel Novecento, ma all’Italia, definita come: Uno schifoso popolo di invidiosi. L’invidia istituita, organizzata in enti, casse, fondazioni e categorie come unico bene e scopo sociale. […] Nessuno ha capito che l’Italia si sfalderebbe in tanti frantumi contrada per contrada, comuni e terreni, strade, buchi, comunanze, vicinati, universitas bonorum, aziende, forni, corriere, paesi, un paese dietro l’altro. Non contano: certo che non contano e non conterebbero: ma allora vedi che nessuno ha capito che l’interlocutore non è colui, uno o tanti, che imprime l’ordine universale; ma la cattiveria, la sopraffazione, la bomba. (Pag. 471 e 518) La rabbia di Aspri diventa fisica e si configura sempre più come un fatto, non tanto sociale, ma corporale: Potevo tenermi al mio corpo, approfondendone l’analisi senza sentimenti o pregiudizi, […] secondo quei moti dell’intestino che cominciavano a dominarmi. Cercai di provocarli fino in fondo, con la speranza che mi avrebbero liberato di quella diffusa condizione d’odio, della quale prendevo coscienza momento per momento, attraverso una ripetuta, drastica eliminazione delle feci e d’ogni vecchio deposito di pigrizia. (Pag. 427) Volponi riprende l’intuizione di John Osborne, che nel dramma teatrale Luther, del 1961, lega indissolubilmente lo spirito con il corpo, l’ideologia con il metabolismo. Si può dunque dire che tutti i bisogni corporei, dal cibo all’espulsione delle feci al sesso, si legano all’ideologia e anche all’umore, quindi alla rabbia: Mia moglie piangeva e questo aumentava il mio furore e la mia sensualità trovava il modo di venire avanti e anche di lasciarmi in pace, se riuscivo ad essere più furente e ad affondare la mia ira nella massa bianca di mia moglie, che si ritraeva, si ricomponeva, sempre con le mani sul petto, o a nodo sulla gola, come il mio furore voleva. (Pag. 514) In questo caso si parla di furore, che è un po’ diverso. La furia si lega sì alla distruzione, ma anche e soprattutto alla passione e alla follia. Man mano che si procede nel romanzo le azioni del protagonista dipendono sempre meno da motivazioni ideologiche o sociali e sempre più dal disagio fisico e psichico, anche se occorre dire che all’origine del disagio ci sono profondi cambiamenti e incertezze nel panorama politico e sociale italiano: Ad insidiare Aspri non è tanto la guerra atomica quanto la mutazione antropologica degli italiani, l’involuzione postmoderna dei movimenti antagonisti, l’omologazione culturale dei ceti medi.(Emanuele Zinato, Commenti ed apparati, pag. 1157). Particolarmente in due casi il disagio di Aspri-Murieta si manifesta: in un attacco di claustrofobia dentro un ascensore e in una apparentemente inspiegabile rissa da bar, che ricorda le spericolate avventure notturne dei personaggi celiniani: Murieta fece appena in tempo a vedere quel gesto che la luce si spense e l’apparecchio si fermò. Fu assalito dall’odore di quel posto e restò fermo un attimo. -Ohi, ohi- disse il marchese, -siamo bloccati,- e cercò di arrivare con le mani sulla tastiera dei pulsanti. […] Murieta fu preso un’altra volta dall’odore e si irrigidì. Una strana sospensione gli alzava lo stomaco. Il marchese accese un cerino e tornò con le mani sui bottoni. Murieta alla luce tremolante di quella fiammella capì che erano rimasti bloccati e fu lancinato dalla paura. -Apra,- gridò, -apra, cerchi di aprire la porta. […] Murieta si fermò, aprì la bocca e si slacciò il colletto: quella sospensione stava diventando un soffocamento che lo costringeva a chiudere gli occhi e che gli comprimeva ogni spazio dentro di sé come se tutti gli organi cominciassero a fondersi insieme. […] – Accenda, mi mostri la fessura, – e diede mano alla pistola. Il marchese accese e Murieta sparò a bruciapelo contro il filo delle due porte. […] Allora di nuovo furiosamente si buttò a spallate; la sua mente cercava e reagiva a una velocità incredibile che addirittura emetteva ogni tanto sprazzi di luce: si divaricava un fianco dell’ascensore alle spallate, ma elastico rientrava subito. Alla stessa velocità della sua mente risaliva dal profondo un’angoscia che l’avrebbe finito bruciandogli il cervello. […] Aprì la bocca allo spasimo per cercare di strapparsi l’intestino, di far uscire dalla realtà di una ferita quella massa che si scaldava come una stella assassina. Si mise a orinare e cercò anche di vomitare, ma nessun senso gli rispondeva più. […] Murieta si denudò del tutto, si toccò le gambe, i ginocchi: si fermò con la faccia sui ginocchi. Un’altra ondata fobica lo sommerse e gli fece perdere conoscenza. (Pag. 669-672) Il buio e la luce influiscono, matericamente, sul corpo del protagonista, che pensa alle conseguenze dell’esplosione della bomba atomica ogni volta in cui si trova in situazioni difficili o spiacevoli. La campanilistica rivalità tra Pesaro e Urbino pare invece essere all’origine della rissa che Aspri scatena in un locale, forse alla ricerca di prove sul comportamento umano di fronte alla minaccia atomica: Bevemmo e mangiammo in un angolo serviti da un cameriere che puzzava di varechina. -Quale è più grande,-gli domandai, -Pesaro o Urbino?- -Non c’è confronto,-disse, ridendo insanguinato. -Pesaro è una città, Urbino è un paese. […] Urbino è un paese abbandonato. -Eppure, -dissi- mi risulta che Urbino sia più grande, oltre che più bella, più ricca di storia e di cultura. […] -Ah, oh!, -urlò come Rasciomon lo snackatore e si ferì la mano con lo stilo, a fondo, saltando il banco, anche perché gli misi contro, abilmente, uno sgabello, sul quale finì per dondolare, ferirsi ancora, e cadere. Esaltato dalla mia bravura dissi ai due giovanotti: -Portatelo fuori, via, soccorretelo; chiudete il bar e andate a letto-. Uno dei due mi volò addosso: mi riuscì un’altra volta di manovrare lo sgabelletto che si rizzò come una molla contro il basso ventre del giovanotto in volo. […] Rincorsi il chierichetto dietro il bancone, male perché lo vedevo con un occhio solo; ma fui lo stesso capace di prenderlo per la gola e di rovesciarlo sotto la macchina-espresso: aprii la manopola del vapore per ustionarlo, ma la macchina non era più sotto pressione e solo un rivolo bollente gli lambì un orecchio: però gli affibbiai più volte sul muso biondiccio il mestolo del caffé e gli spappolai un calcione sulle coglia che se non fosse stato mezzo coperto dall’ermafroditismo di diciassettenne biondo in quella marina di cavolifiori lo avrei castrato. […] -Basta signori, -urlai, -o vi sconcio il culo come una calzetta. Avete già fatto abbastanza. Avete innalzato il bersaglio per la bomba atomica con questo rosso falsificato. Ed io ve l’ho detto. Adesso basta.- Imelde uscì di corsa da una porta che fino ad allora non avevo visto, alle mie spalle, ed io la seguii. […] Appena finite le parole li sentimmo che ci inseguivano.(871-872, 874-875-876-877). L’opposizione tra ragione e follia non è schematicamente semplice nei romanzi di Volponi; corrisponde spesso all’opposizione tra individuo e società, ma non ha confini precisi e chiama in causa una sorta di coscienza prerazionale: Come il mito di Pelope, figlio di Tantalo, ove genitori e figli si smembrano, si fanno a pezzi e si divorano, la fenomenologia del personaggio volponiano è intessuta delle fantasie primitive, cannibaliche, che dominano la preistoria della psiche. (Emanuele Zinato, Introduzione, pag. XXII e XXIII). Al termine di questo percorso si può dunque concludere che nelle opere di Volponi sono riscontrabili diverse modalità di rabbia. C’è la volontà di incidere sulla realtà e di fare critica sociale, e ciò è insito nella poetica dell’autore. Quando poi si tratta di costruire i personaggi, essi sono caratterizzati da una forte tensione interna che si risolve spesso con esiti esplosivi e violenti. Non si può dimenticare che nei suoi romanzi Volponi ha raccontato l’Italia dal fascismo al dopoguerra, dal boom economico fino periodo post industriale. Da un certo punto in poi non si può più dunque distinguere tra mali individuali e mali sociali e collettivi, tra coscienza soggettiva e coscienza storica

  • Tav, a Vicenza i centri sociali resistono nei boschi: ma a fregarli è sempre il PD

    Ad ovest procedono i lavori per la realizzazione della linea TAV tra Torino e Lione, con ultimazione prevista nel 2033 e proteste anche violente, con bombe carta e scontri con la polizia da parte dei cosiddetti  No Tav, ma anche casi paradossali come quello della professoressa Nicoletta Dosio, che a 78 anni, dopo aver scontato mesi di carcere e arresti domiciliari, ha ricevuto lo scorso giugno un’altra diffida e secondo la giustizia italiana deve scontare altri mesi ai domiciliari con l’accusa di “violenza contro pubblico ufficiale e devastazione” per aver partecipato a una manifestazione, sulla carta pacifica, contro la TAV.  Sul versante Est stanno per entrare nel vivo i lavori della linea Brescia-Padova,  che fa parte della linea AV/AC Torino-Milano-Venezia. Si continua a chiamarla alta velocità, ma nel frattempo la sua velocità massima, 220 km/h, è stata surclassata: i veri treni ad alta velocità oggi infatti viaggiano a 250 Km/h. Secondo Rfi e Confindustria si tratta di un’opera fondamentale che garantirà treni veloci al 75% della popolazione del Nord Est e 4 mila posti di lavoro. Questa linea dovrà passare anche per la città di Vicenza, e lo farà, tra le tre ipotesi sulla carta ad inizio progetto, nella maniera più impattante per il territorio. Ci saranno infatti 20 cantieri in città, verranno abbattute case, un centro sociale, un albergo cittadino che ospita i senza tetto, bar, ristoranti, cavalcavia e circa 30 mila metri quadri di aree verdi. Su queste due aree verdi, che sono i boschi di Ca’ Alte e il bosco cosiddetto Lanerossi, si è concentrata negli ultimi mesi la resistenza del centro sociale vicentino Bocciodromo, che prende il nome dal dopo lavoro ferroviario, ma anche di associazioni quali Fridays for Future, Legambiente, un comitato di residenti del quartiere, Italia Nostra, Civiltà del verde. Dal 3 maggio infatti i due boschi sono stati “occupati”: sono state costruite casette sugli alberi, simbolo della resistenza contro le ruspe che dovevano arrivare e non sono arrivate, simbolo anche, più ampio, di un modo diverso di pensare la città, mentre nel frattempo l’ex fabbrica della Pettinatura Lanerossi, dal cui giardino abbandonato è nato il bosco, è stata comprata da una società di Milano che probabilmente ne farà appartamenti, forse, chissà, di lusso, come sono stati fatti a Borgo Berga, a sud di Vicenza, su una collina, dalle ceneri di un’altra fabbrica, la Cotorossi. La storia e la ricchezza industriale di Vicenza pesano sulla città stessa, famosa per un architetto di fama e valore artistico e storico universale quale il Palladio, ma sventrata una volta nell’800 e un’altra volta negli anni Venti del Duemila, in entrambi i casi per far passare una ferrovia. Vero, la città è piccola. C’erano alternative? Far passare i treni sotto le colline, o sottoterra. L’occupazione dei boschi però è stata l’occasione per far vedere ai vicentini che cosa avevano in casa: due boschi, uno di circa 16 mila metri quadri, l’altro circa di 14, abitati da tassi, caprioli, uccelli e, nel caso del bosco Lanerossi, 80 specie diverse di piante. Tra queste un albero proveniente dal continente americano, il Liquidambar, che potrebbe essere un esemplare unico in Europa per il modo in cui ha interagito con l’ambiente circostante sviluppandosi in una maniera unica. Insomma, questo bosco potrebbe essere un orto botanico, donato alla città e alla ricerca. E a dirlo non sono i riottosi militanti del centro sociale, ma professori, esperti, financo preti e frati. Che poi Vicenza sia tra le città più inquinate d’Europa e che 30 mila metri quadri di alberi facciano bene ai polmoni dei cittadini, anche contro le alte temperature e le piogge torrenziali, sono dati abbastanza inequivocabili. Se il bosco di Ca’ Alte, in via Maganza, è spacciato, e, anche se è stato proposto di costruire un orto sociale e arnie per le api, ci passerà la ferrovia e poi diventerà un giardino, con una ripiantumazione artificiale, quello dell’ex fabbrica potrebbe essere salvato dall’albero centenario, che ha le caratteristiche per essere considerato monumentale e quindi, in base a una legge del 2013, non abbattibile. Il Comune di Vicenza ha passato le carte alla Regione, che le passerà al ministero dell’Ambiente, e con un albero monumentale Iricav Due, General Contractor a cui è affidata la progettazione e la realizzazione della nuova linea ferroviaria ad alta capacità veloce Verona-Padova, consorzio costituito per l’83% dal Gruppo Webuild e per il 17% da Hitachi Rail STS, con committente Rete Ferroviaria Italiana – RFI (Gruppo FS Italiane), dovrà ridimensionare il suo cantiere, che nel progetto è grande 12 mila metri quadrati, mentre altri 4 mila saranno occupati da strade e altre opere che restano. Il cantiere, uno dei più grandi e importanti a livello logistico per la realizzazione della linea ferroviaria nel settore Ovest della città, sarà ridotto per salvare un pezzo di bosco attorno all’albero monumentale, ma quello che chiedono gli attivisti e le associazioni è di rivedere il progetto e rinunciare del tutto al cantiere, per salvare l’intero bosco. Nel frattempo si attende l’esito del ricorso al Tar presentato da Italia Nostra, atteso per metà luglio. L’associazione chiede di annullare il progetto definitivo perché manca un progetto per la parte Est e inoltre non sarebbero stati rispettati molti vincoli paesaggistici e storico-culturali. La giunta comunale di Vicenza, di centrosinistra, è favorevole alla TAV e sostiene di fare tutto il possibile per la salute dei cittadini e la tutela del territorio. L’area del bosco è un’area privata, abbandonata per 30 anni, che, tra 10-15 o 20 anni, al completamento dei lavori, sarà donata da Iricav, dopo una ripiantumazione, al Comune. Dal punto di vista legale quindi il Comune ha la possibilità di avere in mano un parco pubblico, al posto di una zona abbandonata e terra di nessuno. Ma, per quanto utopistico, se venisse riconosciuto il valore di questa zona ed essa fosse comunque, a prescindere dalla TAV, regalata alla città, mantenendo il bosco così com’è, avremmo per una volta non un compromesso, bensì una scelta politica precisa: preferire il verde al cemento. La compensazione proposta da Iricav, cioè piantare sette piante per ogni albero abbattuto, più una donazione, già arrivata in Regione, di poco più di 100 mila euro per altre piantumazioni, non convince le associazioni, perché un bosco naturale è più produttivo ed efficace rispetto a un giardino, che comunque vedrà la luce tra molti anni. Nel frattempo gli ambientalisti sono preoccupati per i livelli di polveri sottili, di Pfas nelle acque, per le alluvioni e per l’impatto sociale. Anche a Bologna e in Germania ci sono stati scontri nei giorni scorsi tra ambientalisti e polizia contro l’abbattimento di alberi. Si tratta quindi di un tema globale (nel 2024 abbiamo ancora così bisogno di progresso da dover abbattere gli alberi?) che a Vicenza diventa politico. Il PD infatti vuole la TAV, il progetto preliminare a Vicenza è partito nel 2014 durante il secondo mandato consecutivo (terzo totale) di Achille Variati, che è stato anche sottosegretario all’Interno, e che era sindaco anche nel 2013, quando venne inaugurata la caserma americana Del Din. In quell’occasione sorse un grande movimento dal basso e ci fu anche una drammatica rottura nel centrosinistra, con Rifondazione Comunista, che di recente ha pianto la scomparsa di un suo storico militante, il vicentino Arnaldo Cestaro, che contro le grandi opere si è battuto a partire dall’autostrada Valdastico Sud, che manifestava contro il governo Prodi, che nel 2007 diede il sì definitivo alla realizzazione della base, pur facendone parte. Lo stesso Prodi di recente ha minimizzato la battaglia di Rifondazione, attivisti, comitati cittadini, definendo quella del Dal Molin una “piccola questione urbanistica”. E proprio qui sta il problema: la destra è unita nel non vedere i problemi legati alla base (allagamenti, allarmi terroristici, falde acquifere compromesse) e ne vede solo i vantaggi economici, così come minimizza l’impatto ambientale della TAV, perché porterà soldi. E siccome la destra italiana è composta da persone che, pur offendendosi nel venire chiamate fascisti, allo stesso tempo non si dichiarano mai antifascisti e anzi, si vantano di avere in casa busti del Duce oppure, come Elena Donazzan, partecipano alla commemorazione dei morti nazisti o cantano Faccetta nera in radio, la sinistra, per non far vincere i fascisti, deve ingoiare il rospo. La sinistra cosiddetta radicale non deve rompere le scatole e deve accettare i compromessi del PD, per non far vincere la destra. Il PD dal canto suo si dichiara ambientalista a parole, si fa appoggiare da Alleanza Sinistra e Verdi, ma poi, a conti fatti, non prende decisioni nette in materia ambientale. A Vicenza, del resto, la concessione per realizzare il centro sociale Bocciodromo nell’ex dopolavoro ferroviario abbandonato è stata data proprio dal PD, mentre il centrodestra non vede l’ora che il centro sociale chiuda e, in futuro, potrebbe essere proprio il PD ad individuare un nuovo spazio per un nuovo centro sociale. L’alternativa è rifiutare i compromessi ed occupare, saltando nel campo dell’illegalità (come hanno fatto quelli che hanno distrutto l’ex Popolare di Vicenza), avendo però almeno dato la possibilità ai cittadini di vedere a cosa dovranno rinunciare e chiedersi se ne varrà la pena. Se, cioè, i benefici portati dalla TAV, saranno maggiori rispetto ai disagi. Il fatto è che il problema non si è nemmeno posto all’inizio e la risposta ce l’avremo forse tra una ventina d’anni.

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