Paolo Volponi è stato uno scrittore, dirigente d'azienda e deputato italiano, nato a Urbino nel 1924 e morto trent'anni fa, il 23 agosto 1994. Grande amico e collaboratore di Adriano Olivetti, fu molto deluso dalla sua esperienza alla FIAT negli anni '70. Avvicinatosi giovane al Partito Repubblicano, fu eletto nel '92 tra le fila di Rifondazione Comunista. Da sempre attento ai cambiamenti sociali e politici, predisse la breve durata del primo governo Berlusconi, affossato da Bossi dopo qualche mese dalla sua prima elezione nella primavera '94. La sua produzione letteraria è stata etichettata come letteratura di fabbrica. La tensione tra umanesimo e scienza è sempre fortissima nelle sue opere, romanzi, racconti, poesie. Grande appassionato di pittura, la sua è anche un grande esempio di scrittura visiva e negli ultimi anni, prima della prematura scomparsa, si intuisce l'affermarsi di una sensibilità per i temi ambientali.
La critica ha spesso sottolineato la presenza, nei romanzi di Volponi, dei folli e dei diversi, che hanno una funzione precisa: Al fondo della poetica di Volponi si colloca una percezione irriducibilmente lirica, ovvero altra, della realtà che troverà la propria figurazione esemplare nell’immagine del folle, nella sua ottica deformante e visionaria. Il nevrotico diviene[…] un ribelle al quale la stessa nevrosi dà una capacità di interpretazione della realtà più acuta e rivelatrice. L’oltranza della follia, diviene strumento di conoscenza: diviene la specola, la ferita-feritoia dalla quale inquadrare la violenza della normalità istituita. (Guido Santato, Il linguaggio di Volponi tra poesia e romanzo, in «Paragone-Letteratura», n.442, 1986, pag. 12-13) La follia in Volponi non è fine a se stessa e si manifesta quasi sempre come una reazione virulenta, attraverso i vari stati di quella che in psicanalisi si definisce “isteria”, che non è solo malattia o sfogo, è la conseguenza di una razionale ricerca di un rapporto tra l’individuo e la società, ma l’io sociale è sempre un io ferito. La critica ha infatti spesso evidenziato il risvolto polemico nei confronti della società nelle opere di Volponi, individuando contemporaneamente il carattere visionario, allucinatorio del suo modo di guardare il mondo, supportato non di rado da personaggi nevrotici o folli: il linguaggio “lirico” ha allora il doppio compito […] di esprimere l’ottica deviante di costoro, vittime della società, e di porre un’esigenza di alterità “utopistica” rispetto al mondo stesso di oggi, nelle sue forme neocapitalistiche. (Mengaldo Storia della lingua italiana. Il novecento, Bologna , il Mulino, 1994, pag. 180 e 356).
Il lanciatore di giavellotto, del 1981, è forse il romanzo dove la follia è più “individuale” e meno “sociale”, derivata da un rapporto morboso con la madre bellissima e fedifraga, dalla difficoltà a rapportarsi con le donne, che porta il giovane protagonista a coltivare una violenza repressa, che l’esercizio fisico non basta a sedare, fino al doppio gesto estremo finale. Il suicidio però non è sempre un segno di sconfitta, ma spesso, come in età romantica, è concepito come un’offesa e un affronto al mondo. Nelle opere di Volponi l’annullamento dell’io è una costante (Saluggia, Crocioni, Aspri, Possanza e Saraccini sono dei perdenti, sconfitti e annichiliti dalla società e dalle persone) anche se solo due volte nei romanzi e uno nei racconti il protagonista ricorre al suicidio. Marco Vianello nel suo saggio apparso nel 2003 sulla rivista «Studi Novecenteschi» avente per titolo Volponi e il tema del suicidio confronta i protagonisti de La macchina mondiale, Il lanciatore di giavellotto e Talete, sostenendo che non si può parlare di follia, si tratta invece di una lotta interna alla ragione e di una reazione alla folle “ragione strumentale” della società neocapitalistica: compresenti sono i due elementi che determinano la ‘stranezza’ dei personaggi volponiani e, alla fine, le cause ultime del suicidio, ‘soggettivo’ e ‘oggettivo': l’irregolarità soggettiva dei personaggi da una parte, dall’altra la società che esclude e respinge l’uomo. È ancora, anche se il problema è ora posto in altri termini, il tentativo dei romantici di comunicare con l’autrui, solo che Volponi sembra mettere l’accento accusatorio soprattutto su quest’ultimo, nel mondo borghese e industrializzato. (pag. 73-74) Una follia non più soggettiva è invece rappresentata in due romanzi “apocalittici”: Il pianeta irritabile, del 1978, e Le mosche del capitale, del 1989. Il primo è proiettato in un futuro lontano che però non esita ad alludere a fenomeni degli anni ’70 e si configura come un ritorno ad un passato primitivo e primordiale, in cui la violenza fa parte della logica della sopravvivenza. In questa grande allegoria ad arrabbiarsi è il pianeta stesso con la sua natura e i suoi animali, che si sbarazzano dell’ingombrante e nociva presenza umana. Le mosche del capitale invece è un romanzo che ebbe una lunga gestazione, proprio perché Volponi cercò di oggettivizzarlo il più possibile, essendo stato pensato e scritto in seguito a una forte rabbia e delusione. È praticamente una lunghissima invettiva contro l’industria e il capitalismo italiani, la follia è collettivizzata e l’individuo è ormai perso nella massa, che è una massa postmoderna; la rabbia si trasfigura in immagini apocalittiche e grottesche che riflettono profonda amarezza e critica sociale. Restano fuori Il sipario ducale, del 1975, e due romanzi pubblicati molti anni dopo la loro stesura, uno addirittura postumo, cioè La strada per Roma e La zattera di sale. In questa sede si è preferito tralasciarli non perché non siano legati al tema della follia, ma perché meriterebbero un discorso a parte e diversificato rispetto a quello che vuole essere un percorso tematico sulla rabbia come violenza o come indignazione e protesta.
Si è fin qui però parlato molto di follia, non perché si intenda svolgere un’approfondita analisi psicopatologica dei personaggi volponiani (a questo proposito si può infatti rimandare al saggio di Valerio Cuccaroni La follia nella narrativa italiana (1960-1980): i romanzi di Paolo Volponi fra scrittura della nevrosi e sperimentazione), ma perché effettivamente il pensiero comune tende spesso a classificare la violenza: se essa non ha origine ideologica allora è follia. La verità è che non è così semplice distinguere tra i due casi, e i romanzi di Volponi dimostrano esemplarmente come rabbia, furore, collera, invidia, violenza, disperazione, dolore, follia, ideologia, disagio fisico, repressione sessuale ed esclusione sociale tendano spesso a fondersi e confondersi. In particolare il romanzo d’esordio, Memoriale, del 1962, e il romanzo per molti aspetti centrale e cruciale della produzione volponiana, cioè Corporale, del 1974, possono fornirci alcuni esempi importanti. Il protagonista di Memoriale, Albino Saluggia, è un operaio che decide di scrivere una sorta di resoconto della sua esperienza, nella convinzione di essere stato ingiustamente perseguitato ed espulso dalla fabbrica e nella speranza di usare la scrittura della verità come un’arma e un’accusa. Il lettore ha quindi di fronte direttamente la voce del protagonista, senza mediazioni, in modo da avere forte e chiara la sensazione di J’accuse nei confronti della fabbrica. Il senso di ingiustizia e la voglia di riscatto umano e sociale sono dunque alla base della rabbia del protagonista.
Ci sono però alcuni indizi che portano il lettore a sospettare della sua sanità mentale. Innanzitutto l’esperienza dello sradicamento e della prematura recisione del cordone ombelicale di Saluggia rispetto alla sua terra d’origine cioè Avignone, e poi al suo caro paesaggio di Candia, durante la guerra. La morte prematura del padre, il difficile rapporto con la madre, la diagnosi della tubercolosi, l’esperienza quasi forzata in sanatorio e la difficoltà per un uomo abituato alla vita da contadino di adattarsi alla vita moderna della città industriale sono tutti elementi che potrebbero aver contribuito a minare la sua psiche: diventavo sempre più irascibile, di umore cattivo e così aspro tanto che nemmeno i miei mali lo condizionavano più. […] Prendevo spesso a calci la cassetta dei pezzi rovesciandola e la cascata rumorosa del metallo era come un avvio, un incentivo a distruggere, a fare ancora cose più sconvenienti; così rompevo tutto quello che potevo, dalla catena dei gabinetti alle maniglie, ai bicchieri degli spogliatoi.
Rispondevo male ai miei compagni e se appena lo avessi potuto gli avrei picchiati.(Romanzi e prose, vol. I, pag.130-131) In questo passaggio Albino sostiene che “i suoi mali”, cioè la tosse e i dolori al petto che secondo i medici sono sintomi della tubercolosi, non sono la causa della voglia di distruggere tutto. Qualcos’altro, forse a livello inconscio, agisce dunque sulla sua mente; in certi casi è una sorta di moralismo, unito a una non tanto velata misoginia, come nel caso del pestone rifilato a una donna che ha una relazione con il suo amico Gualatrone, «sui piedi nudi nei sandalini»pag. 130). Il fatto che si sottolinei la nudità dei piedi (in altre parti Saluggia sostiene di essere infastidito dai vestiti estivi delle donne anche in settembre e dai grembiuli slacciati delle operaie) indica un certo disagio nei confronti della sessualità, causato forse da un lato dall’asfissiante presenza di una madre troppo apprensiva e dall’altro dalla rigida educazione cattolica.
Quest’ultima del resto, soprattutto dentro una fabbrica, non fa che aumentare lo scollamento del protagonista rispetto all’avanzare dei tempi. Il timore di perdere il lavoro che assale Saluggia quando i medici lo dichiarano tubercoloso non impedisce alla sua rabbia di concretizzarsi e di manifestarsi sotto forma di aggressione ad un compagno di reparto: Finché un giorno, poco dopo arrivati in quel reparto del montaggio, allungò le sue mani sporche verso di me, come se volesse pizzicarmi o accarezzarmi, bofonchiando qualcosa tra la saliva. Mi vinse soprattutto la repugnanza della sua bocca e lo colpii con un pugno ancora pieno dei pezzi da montare.(pag. 144-145) La sospensione dal lavoro è un’occasione per riposarsi e riflettere, ma non sembra che ciò basti a placare Saluggia.
Le poesie che egli scrive in sanatorio mostrano come il ritmo di lavoro forsennato imposto dal cottimo influisca anche sui suoi pensieri, in cui le parole si susseguono con frequenza ossessiva concatenandosi attraverso le rime. Un episodio di violenza primordiale insita nella natura acuisce inoltre, come avviene nei romanzi e nelle novelle di Tozzi, il suo senso di disagio e smarrimento: A un tratto, vidi un guizzo rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla sua superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero appena le scosse dell’acqua. Per un altro attimo il luccio rimase fermo, con il suo occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica. La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo pallido e lontano, nel quale non si poteva leggere né scrivere niente, mi dichiararono più solo e spaventato. (Pag. 188)
Saluggia patisce la lontananza dal mondo contadino e mostra di non sapersi adattare ai mutamenti storici e sociali. Verso la fine del romanzo la sua situazione di operaio, che è già di per sé una situazione da subalterno rispetto all’organigramma sociale, viene ulteriormente degradata dal nuovo incarico di piantone all’esterno della fabbrica: Così spesso avrei voluto urlare contro gli operai che deridevano la grande fortuna di essere dentro, uniti, con un lavoro. Un giorno ne sentii tre che camminavano ancora più adagio del solito nella pausa rubata tra una porta e l’altra; parlavano di scioperare. Io ero in cima al mio paletto, nel sole, a sedere come una sentinella indiana. […] Il risentimento che provavo e quella fortezza della fabbrica mi diedero l’idea di un assalto. Una sortita avrebbe dovuto venire dalla fabbrica ed io avrei dovuto respingerla dal mio posto con una mitragliatrice. […] Io impugnavo la mitragliatrice. Eccone due alle porte. Facevo fuoco. Le mie labbra misuravano la mitraglia. […] Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i modi. Lo spiazzo davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava i morti man mano che cadevano sotto la mia mitraglia. Uccidevo tutti quelli che tentavano di uscire e la mia ansia era implacabile come quella del sole che divorava tutti i cadaveri.(pag. 225-226) Incapace di individuare la vera origine del suo disagio e di porvi rimedio, ed escluso (anche per colpa sua) dalla lotta sindacale e di classe, l’operaio Albino Saluggia compie la sua vendetta e sfoga la sua rabbia solo in un delirio visionario che mescola immagini bibliche da giorno del giudizio a ricordi personali del trauma della guerra. In questo romanzo la rabbia non riesce a trasformarsi in impegno sociale e sfiora la follia, ma è chiaro comunque il suo stretto rapporto con le condizioni del lavoro in fabbrica.
In Corporale l’ideologia marxista e comunista viene invece esplicitamente chiamata in causa, anche quando se ne mostra la sua crisi, che si riflette sul corpo e sulla mente del protagonista, l’intellettuale Gerolamo Aspri, che assumerà poi l’identità del rivoluzionario messicano Joachìm Murieta. Volponi stesso parla così a proposito del suo romanzo: È cresciuta anzitutto una prima parte (scritta in prima persona) nella quale sono esposte le ragioni di questa conflittualità: le insufficienze ideologiche e culturali del protagonista, i dolori di una formazione incerta, il suo fallimento. […] nella seconda parte, muovendo da questo stato di conflittualità egli cerca dapprima di realizzare un progetto criminale: vuole diventare ricco e al tempo stesso sfidare la società, attaccandola con operazioni volgari di brigantaggio e di prostituzione, sostenuto in questo da certi supporti «ideologici» di un suo amico tedesco, Overath. Ma alla fine non ce la fa e crolla. (Commenti e apparati pag. 1140) La crisi del Pci e l’ossessione per la possibilità che scoppi la bomba atomica hanno conseguenze negative sulla psiche di Aspri, che reagisce isolandosi dal mondo e cercando nel suo corpo le risposte necessarie, assumendo allo stesso tempo un atteggiamento inspiegabilmente aggressivo e violento: I miei compagni non mi aiutano più come non mi soddisfano più, anch’essi vanno nel vago, alcuni con una testardaggine che dà all’evanescenza nella quale ormai sono la piega di un ghigno: tutto è più accanito ed è più frettoloso e approssimativo; l’ideologia è offuscata dal tradimento […] la comodità corrode le idee dopo averle lustrate fino in fondo e l’uomo si volta per non vedere gli acidi e le slabbrature. […] Questa volontà di distruggere la società è l’essenza che la tiene e la sorregge. […] La mia rabbia cercava di distinguere e forse perché questo era impossibile si acciaccava dentro di me. […] Afferrai Overath per il collo, dimenandolo e cercando si sbattergli la testa contro il muro. Venne giù mezza tenda e potei mettere le mani sul bastone. Gli vibrai un colpo che non cadde sulla testa giacché era sparito dietro l’altra metà della tenda […] -Mi tocca vaneggiare,- dissi quasi piangendo,- per colpa di questo traditore. […] Diedi un calcio contro un comodino nel rimpianto della brama famigliare e scappai, soffocato dalle lacrime e dalla polvere. (Pag. 419, 441, 557 e 559).
In Corporale un giudizio negativo è riservato non alla vita in generale, come in molti romanzi cosiddetti “dell’odio”, sia nell’Ottocento che nel Novecento, ma all’Italia, definita come: Uno schifoso popolo di invidiosi. L’invidia istituita, organizzata in enti, casse, fondazioni e categorie come unico bene e scopo sociale. […] Nessuno ha capito che l’Italia si sfalderebbe in tanti frantumi contrada per contrada, comuni e terreni, strade, buchi, comunanze, vicinati, universitas bonorum, aziende, forni, corriere, paesi, un paese dietro l’altro. Non contano: certo che non contano e non conterebbero: ma allora vedi che nessuno ha capito che l’interlocutore non è colui, uno o tanti, che imprime l’ordine universale; ma la cattiveria, la sopraffazione, la bomba. (Pag. 471 e 518) La rabbia di Aspri diventa fisica e si configura sempre più come un fatto, non tanto sociale, ma corporale: Potevo tenermi al mio corpo, approfondendone l’analisi senza sentimenti o pregiudizi, […] secondo quei moti dell’intestino che cominciavano a dominarmi. Cercai di provocarli fino in fondo, con la speranza che mi avrebbero liberato di quella diffusa condizione d’odio, della quale prendevo coscienza momento per momento, attraverso una ripetuta, drastica eliminazione delle feci e d’ogni vecchio deposito di pigrizia. (Pag. 427) Volponi riprende l’intuizione di John Osborne, che nel dramma teatrale Luther, del 1961, lega indissolubilmente lo spirito con il corpo, l’ideologia con il metabolismo. Si può dunque dire che tutti i bisogni corporei, dal cibo all’espulsione delle feci al sesso, si legano all’ideologia e anche all’umore, quindi alla rabbia: Mia moglie piangeva e questo aumentava il mio furore e la mia sensualità trovava il modo di venire avanti e anche di lasciarmi in pace, se riuscivo ad essere più furente e ad affondare la mia ira nella massa bianca di mia moglie, che si ritraeva, si ricomponeva, sempre con le mani sul petto, o a nodo sulla gola, come il mio furore voleva. (Pag. 514) In questo caso si parla di furore, che è un po’ diverso. La furia si lega sì alla distruzione, ma anche e soprattutto alla passione e alla follia. Man mano che si procede nel romanzo le azioni del protagonista dipendono sempre meno da motivazioni ideologiche o sociali e sempre più dal disagio fisico e psichico, anche se occorre dire che all’origine del disagio ci sono profondi cambiamenti e incertezze nel panorama politico e sociale italiano: Ad insidiare Aspri non è tanto la guerra atomica quanto la mutazione antropologica degli italiani, l’involuzione postmoderna dei movimenti antagonisti, l’omologazione culturale dei ceti medi.(Emanuele Zinato, Commenti ed apparati, pag. 1157).
Particolarmente in due casi il disagio di Aspri-Murieta si manifesta: in un attacco di claustrofobia dentro un ascensore e in una apparentemente inspiegabile rissa da bar, che ricorda le spericolate avventure notturne dei personaggi celiniani: Murieta fece appena in tempo a vedere quel gesto che la luce si spense e l’apparecchio si fermò. Fu assalito dall’odore di quel posto e restò fermo un attimo. -Ohi, ohi- disse il marchese, -siamo bloccati,- e cercò di arrivare con le mani sulla tastiera dei pulsanti. […] Murieta fu preso un’altra volta dall’odore e si irrigidì. Una strana sospensione gli alzava lo stomaco. Il marchese accese un cerino e tornò con le mani sui bottoni. Murieta alla luce tremolante di quella fiammella capì che erano rimasti bloccati e fu lancinato dalla paura. -Apra,- gridò, -apra, cerchi di aprire la porta. […] Murieta si fermò, aprì la bocca e si slacciò il colletto: quella sospensione stava diventando un soffocamento che lo costringeva a chiudere gli occhi e che gli comprimeva ogni spazio dentro di sé come se tutti gli organi cominciassero a fondersi insieme. […] – Accenda, mi mostri la fessura, – e diede mano alla pistola. Il marchese accese e Murieta sparò a bruciapelo contro il filo delle due porte. […] Allora di nuovo furiosamente si buttò a spallate; la sua mente cercava e reagiva a una velocità incredibile che addirittura emetteva ogni tanto sprazzi di luce: si divaricava un fianco dell’ascensore alle spallate, ma elastico rientrava subito. Alla stessa velocità della sua mente risaliva dal profondo un’angoscia che l’avrebbe finito bruciandogli il cervello. […] Aprì la bocca allo spasimo per cercare di strapparsi l’intestino, di far uscire dalla realtà di una ferita quella massa che si scaldava come una stella assassina. Si mise a orinare e cercò anche di vomitare, ma nessun senso gli rispondeva più. […] Murieta si denudò del tutto, si toccò le gambe, i ginocchi: si fermò con la faccia sui ginocchi. Un’altra ondata fobica lo sommerse e gli fece perdere conoscenza. (Pag. 669-672) Il buio e la luce influiscono, matericamente, sul corpo del protagonista, che pensa alle conseguenze dell’esplosione della bomba atomica ogni volta in cui si trova in situazioni difficili o spiacevoli.
La campanilistica rivalità tra Pesaro e Urbino pare invece essere all’origine della rissa che Aspri scatena in un locale, forse alla ricerca di prove sul comportamento umano di fronte alla minaccia atomica: Bevemmo e mangiammo in un angolo serviti da un cameriere che puzzava di varechina. -Quale è più grande,-gli domandai, -Pesaro o Urbino?- -Non c’è confronto,-disse, ridendo insanguinato. -Pesaro è una città, Urbino è un paese. […] Urbino è un paese abbandonato. -Eppure, -dissi- mi risulta che Urbino sia più grande, oltre che più bella, più ricca di storia e di cultura. […] -Ah, oh!, -urlò come Rasciomon lo snackatore e si ferì la mano con lo stilo, a fondo, saltando il banco, anche perché gli misi contro, abilmente, uno sgabello, sul quale finì per dondolare, ferirsi ancora, e cadere. Esaltato dalla mia bravura dissi ai due giovanotti: -Portatelo fuori, via, soccorretelo; chiudete il bar e andate a letto-. Uno dei due mi volò addosso: mi riuscì un’altra volta di manovrare lo sgabelletto che si rizzò come una molla contro il basso ventre del giovanotto in volo. […] Rincorsi il chierichetto dietro il bancone, male perché lo vedevo con un occhio solo; ma fui lo stesso capace di prenderlo per la gola e di rovesciarlo sotto la macchina-espresso: aprii la manopola del vapore per ustionarlo, ma la macchina non era più sotto pressione e solo un rivolo bollente gli lambì un orecchio: però gli affibbiai più volte sul muso biondiccio il mestolo del caffé e gli spappolai un calcione sulle coglia che se non fosse stato mezzo coperto dall’ermafroditismo di diciassettenne biondo in quella marina di cavolifiori lo avrei castrato. […] -Basta signori, -urlai, -o vi sconcio il culo come una calzetta. Avete già fatto abbastanza. Avete innalzato il bersaglio per la bomba atomica con questo rosso falsificato. Ed io ve l’ho detto. Adesso basta.- Imelde uscì di corsa da una porta che fino ad allora non avevo visto, alle mie spalle, ed io la seguii. […] Appena finite le parole li sentimmo che ci inseguivano.(871-872, 874-875-876-877).
L’opposizione tra ragione e follia non è schematicamente semplice nei romanzi di Volponi; corrisponde spesso all’opposizione tra individuo e società, ma non ha confini precisi e chiama in causa una sorta di coscienza prerazionale: Come il mito di Pelope, figlio di Tantalo, ove genitori e figli si smembrano, si fanno a pezzi e si divorano, la fenomenologia del personaggio volponiano è intessuta delle fantasie primitive, cannibaliche, che dominano la preistoria della psiche. (Emanuele Zinato, Introduzione, pag. XXII e XXIII).
Al termine di questo percorso si può dunque concludere che nelle opere di Volponi sono riscontrabili diverse modalità di rabbia. C’è la volontà di incidere sulla realtà e di fare critica sociale, e ciò è insito nella poetica dell’autore. Quando poi si tratta di costruire i personaggi, essi sono caratterizzati da una forte tensione interna che si risolve spesso con esiti esplosivi e violenti. Non si può dimenticare che nei suoi romanzi Volponi ha raccontato l’Italia dal fascismo al dopoguerra, dal boom economico fino periodo post industriale. Da un certo punto in poi non si può più dunque distinguere tra mali individuali e mali sociali e collettivi, tra coscienza soggettiva e coscienza storica
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